Daniele Barbieri's BLOG 
 
 
 

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14.dicembre.2004
D'accordo: ho scritto e pubblicato un libro di poesie. Lo ammetto: sono colpevole. E tendo anche a essere recidivo.
D'altra parte, uno non può sempre e solo occuparsi di cose serie, come i fumetti.
E insomma, un piccolo vizio possiamo pure permettercelo! O no?

10.dicembre.2004
Ricevo Black, il magazine della Coconino Press, con le proposte e le anticipazioni di quello che poi finirà in volume. Come al solito, il contenuto è tutto di alta qualità, e quindi qualsiasi osservazione io faccia va intesa tenendo presente questo. Tantopiù che il numero inizia con un intervento di Omar Martini su Edward Gorey, autore affascinantissimo e un po' dimenticato, che ritrovo con grande piacere.
Leggo anche, però, l'introduzione di Igort, che mi parla, in toni entusiastici, di Sammy Harkham, di cui pubblica la storia "Poor sailor" e a cui dedica anche la copertina. Sarà anche per le parole di elogio di Igort, ho iniziato a leggere la storia di Harkham aspettandomi un piccolo capolavoro, e ho trovato una storia carina, con un sacco di invenzioni originali - ma in fondo un po' patetica nel complesso, con questo irredimibile pessimismo per cui tutto va a finire nel peggiore dei modi. Probabilmente Igort ha letto, di Harkham, anche altro; o ha letto questa storia in un contesto differente. Comunque, il giudizio di Igort è attendibile; e quindi mi aspetto altre storie di Harkham che mi facciano pensare di essermi sbagliato.
Comunque, tra vecchie glorie e giovani promesse, il numero di Black è nel complesso molto godibile. Non voglio fare la rassegna di tutte le storie. Mi limito a segnalare quello che mi ha colpito di più. Oltre ai deliri della rinata (già da un po') coppia Colucci-Giacon, sono grato a Igort per il ritorno sulle scene di Elfo, con queste sue microstorie, come delle liriche a fumetti, centrate ciascuna sulla descrizione di una persona attraverso una sensazione o un'emozione. Michelangelo Setola guarda molto Mattotti e promette bene, molto bene, ma dovrebbe stare attento, qua e là, a evitare certe difficoltà di comprensione proprio nei momenti cruciali della storia. Tatsumi e David B. sono Tatsumi e David B., né più né meno, il che è sempre non poco, e anche l'ironia un po' demente della mummia di Marzocchi-Zeman è intrigante. Ho elencato quasi tutto, alla fine. Gli assenti si risentiranno. Faranno male. Nel caso, si rileggano l'inizio di questa nota.

3.dicembre.2004
Mi accorgo di avere scatenato una piccola polemica con il mio articolo su Golem a proposito del verso di lettura dei fumetti giapponesi nelle traduzioni occidentali. Me ne accorgo, già a distanza di così pochi giorni, dalle email che ricevo e dalle discussioni nei newsgroup.
Voglio perciò aggiungere alcune considerazioni a sostegno della mia tesi, che avevo avanzato in prima istanza, ancora in una forma più debole, proprio in questo Blog, in data 11 ottobre. Sono perfettamente consapevole che il ribaltamento pone una serie di problemi, alcuni dei quali possono essere facilmente risolti e altri no, strutturalmente no. La comparsa di una carta geografica mette chiaramente in luce il ribaltamento, perché le forme delle aree geografiche che ci sono così familiari nella versione dritta diventano irriconoscibili (e false) nella versione ribaltata. In qualche caso potrà forse essere sufficiente ri-ribaltare specificamente la cartina; in qualche altro caso risulterà impossibile. Che un personaggio faccia riferimento verbale alla sua mano sinistra mentre nell'immagine ribaltata esibisce la destra è pura manchevolezza del traduttore, anzi dell'editor, che queste cose le dovrebbe controllare: a meno che questo non abbia conseguenze ulteriori sul senso del testo, è più facile cambiare le parole delle immagini. Una partita a baseball resta ribaltata e basta: non riesco a immaginare come si possa rimediare. Chi conosce il gioco si ritroverà indubbiamente spaesato, ma per chi non lo conosce non credo che faccia molta differenza.
C'è tutto questo, e indubbiamente molto altro; ma questi problemi non sono una prerogativa della stampa ribaltata del manga. Ogni traduttore sa che tradurre è tradire, e che, come nel titolo del libro di Eco, tradurre è, al massimo, cercare, con la massima onestà e diligenza, di dire quasi la stessa cosa. Poiché qualcosa inevitabilmente in una traduzione si perde, il traduttore deve decidere che cosa perdere e che cosa conservare; deve fare, cioè, una scelta, la quale, come ogni scelta, inevitabilmente scontenterà qualcuno.
Io credo che in una storia a fumetti, come in qualsiasi tipo di storia, l'efficacia e la fluidità della lettura siano il primo valore da preservare. Se sacrifico quelli, in nome della filologia e del rispetto della lettera dell'originale, avrò in realtà tradito l'originale assai di più che accettando alcuni cambiamenti. La prima finalità di un racconto, a fumetti come di ogni altro tipo, è quella di interessare, appassionare, il suo fruitore. Se un racconto non riesce a fare questo, il lettore presto o tardi abbandonerà la lettura, o la proseguirà controvoglia, e di tutti gli altri aspetti significativi in fin dei conti gli arriverà poco o nulla. Ovviamente, non bisogna prendere questa priorità in termini tassativi: essere l'aspetto più importante non significa essere il solo aspetto importante. Di conseguenza le decisioni in materia di traduzione sono sempre difficili e locali: ma se si sacrifica l'efficacia comunicativa si sacrifica tutto, perché il resto rischia fortemente di non arrivare nemmeno al lettore.
Prendiamo dunque la vignetta di Lone Wolf and Cub che mostro nel mio articolo. Pregherei il lettore di aprire la pagina di Golem e di tenere sotto l'occhio le due versioni che vi vengono mostrate. Vi si mostra un combattimento tra il vecchio Yagyu Retsudo e Ogami Itto (per la cronaca si tratta di un flashback che racconta un episodio che risale addirittura alla nomina di Itto come giustiziere imperiale, e quindi all'origine della rivalità tra i i due). Retsudo combatte con il bastone, e Itto con la spada.
Nella versione ribaltata, quella che condivide il senso di lettura a cui siamo abituati, riconosciamo con facilità la dinamica degli eventi, il gesto di alzare rapidamente la spada compiuto da Itto mentre si sposta verso sinistra per evitare il movimento circolare del bastone di Retsudo, un movimento che chi ha fatto un po' di Aikido è in grado di riconoscere. Inoltre, l'inquadratura è presa dalle spalle di Itto, è cioè una semi-soggettiva, in cui oltre a vedere Itto stesso, vediamo quello che lui vede. Ma, trovandosi Itto a sinistra di Retsudo, il senso della sua visione va anche nel senso della nostra lettura istintiva, che va da sinistra a destra: dunque, nel procedere da sinistra verso destra noi procediamo anche verso l'interno della scena, cioè verso Retsudo - il quale, però, in questo momento sta attaccando, cioè venendo verso di noi, che ci stiamo identificando con Itto. Si crea cioè un movimento di andata dello sguardo e di ritorno dell'azione, che ci costringe a spostare la nostra attenzione alternativamente sui due combattenti, ed è di per sé fortemente evocativo di una situazione di combattimento.
Questo è quello che percepirebbe pure un lettore giapponese guardando l'immagine originale, visto che il suo istinto di lettura (ovvero l'abitudine interiorizzata in anni di pratica individuale, basati su secoli di pratica collettiva, che fanno sì che la direzione privilegiata destra-sinistra non appartenga più solo alla scrittura - come accade pure in occidente per il suo opposto) lo porta a leggere le immagini nel senso corretto per l'immagine originale.
Ma cosa succede quando siamo noi a leggere l'immagine originale? Si vede un Retsudo formidabile che attacca un Itto che può solo difendersi. Il movimento di andata dello sguardo e di ritorno dell'attacco viene del tutto inibito. Itto non è protagonista dello sguardo, come nella versione ribaltata, e siccome il movimento sinistra-destra è per noi quello naturale, ci appare da un lato magnificato l'attacco di Retsudo, e dall'altro ci appare pure inequivocabile la ritirata di Itto. Cambiando la direzione dell'immagine, il medesimo gesto si trasforma in una ritirata, da una semplice schivata che era.
E anche il movimento della spada di Itto non è più chiaro: sembra ferma, là in alto, e Itto sul punto di cadere, e quindi di essere sconfitto, spazzato via anche da quel circolo di linee di movimento che, mentre nella versione ribaltata conferiscono un dinamismo generico, maggiormente destinato a rappresentare il movimento di Retsudo, qui, prendendo la direzione di minore resistenza da sinistra a destra, paiono travolgere Itto.
Insomma, il semplice rovesciamento dell'immagine ci trasforma un confronto tra pari in una vittoria dell'uno sull'altro. E' o non è questo un tradimento delle intenzioni dell'autore!? E' davvero la stessa storia, quella che leggiamo così, filologicamente non ribaltata, rispetto a quella di Koike e Kojima?

30.novembre.2004
Il problema specifico dello scrivere su un libro uscito da poco (ovvero, più banalmente, dello scrivere una recensione) è che bisogna parlarne senza dirne troppo. Da un lato bisogna parlarne, è giusto parlarne, e si ha voglia di parlarne. Dall'altro, presumibilmente una buona parte dei miei lettori non l'ha ancora letto, e quindi non è giusto nei loro confronti rivelare aspetti del libro la cui scoperta diretta fa parte dell'emozione del leggerlo. Senza arrivare al rivelare che l'assassino è il maggiordomo - come facevamo da ragazzi parlando ad alta voce fintamente tra noi mentre uscivamo dal cinema e passavamo di fianco a quelli che entravano - anche solo descrivere il modo in cui vengono introdotti nuovi temi, o come cambia il disegno di una storia a fumetti andando avanti, può essere fonte di sorprese mancate da parte del lettore del testo.
Ma, d'altra parte, come faccio a parlare di un libro senza fare riferimento a quello che contiene? Per questo fare recensioni è un'arte difficile, e necessariamente limitata; che non dovrebbe essere confusa con la critica in senso pieno, in cui il critico può fare a meno di porsi questo problema, e anzi la presupposizione che i suoi lettori conoscano il testo di cui sta parlando è utile, perché lo scopo della critica è quello di invitare a rileggere, e a trovare in un testo quello che non eravamo riusciti a trovare alla prima lettura. Poiché i buoni testi sono sempre più ricchi di quello che sembrano, la critica fa un lavoro di proposte di scavo; propone delle nuove modalità di lettura, che poi ciascun lettore, facendole proprie o contrapponendovisi, userà come spunto per le sue specifiche e nuove modalità di lettura.
Qualcosa, comunque, di questi Appunti per una storia di guerra di Gipi, mi scappa di dire - e spero di avere modo di tornarci sopra l'anno prossimo, quando potrò evitare di pormi il problema di non rivelare troppo. Non che ci sia un maggiordomo assassino da scoprire, nella storia di Gipi, però le sorprese, procedendo nella lettura, non mancano affatto. Dopo le liriche visive di Esterno notte, questa è decisamente una storia in prosa, un vero racconto, narrativamente complesso, intricato - anche se la storia ci può apparire lineare, facile. E' che c'è un gioco raffinato di cambi di prospettiva, di punti di vista, in cui racconto e immagine giocano di squadra, ma non all'unisono.
Il passaggio a una dimensione di prosa, di romanzo, da quella poetica del volume precedente, si vede anche dal disegno, che si è fatto un poco più semplice e dinamico. Ma Gipi ha, e si vede, non soltanto un talento grafico non da poco, ma anche e soprattutto un talento narrativo. Lo si vede da come caratterizza i personaggi, e da come racconta l'ascesa sociale del Killerino, ma anche da come sa preparare le sorprese, i punti di volta della storia.
Lo si vede, infine - ma qui comincio a correre il rischio di dire troppo - da come viene descritta questa guerra che non si vede (quasi) mai, perché tutto succede ai suoi bordi; ma è una guerra nostra, che accade qui e ora, proprio dove non ce lo aspettiamo, come non se lo aspettava forse la gente dei Balcani dieci anni fa. E questo suo confrontarsi con le nostre passioni e abitudini di oggi, della nostra vita quotidiana, la rende ancora più cruda e feroce - persino nel suo non mostrarsi, o mostrarsi appena, nelle pagine di Gipi.
Qui mi fermo. Spero di aver detto abbastanza, ma non troppo. L'alternativa sarebbe stata quella di dire: "A me è piaciuto". Un po' troppo poco, no?

21.novembre.2004
Sfogliando il supplemento culturale della domenica del Sole 24 ore, arrivo a una pagina pubblicitaria del teatro San Carlo di Napoli, dove si annuncia un'edizione di Tristan und Isolde di Richard Wagner. La pagina è dominata da un'illustrazione di Milo Manara, che ne occupa circa la metà.
Dovrei dunque essere contento, visto che viene chiamato un fumettista a illustrare l'annuncio di un'opera così tradizionale e importante? Il fumetto è diventato finalmente abbastanza maturo da essere chiamato a rappresentare il melodramma wagneriano?
Le cose non stanno esattamente così. Intanto qui non è in gioco il fumetto, ma semplicemente un autore di fumetti. E tuttavia, io sono ben contento quando vedo illustrazioni di Mattotti o della Ghermandi con funzioni di questo genere.
Qui, invece, provo solo una grande tristezza, e l'impressione di trovarmi di fronte a un'operazione commerciale non particolarmente astuta.
Nell'illustrazione di Manara un Tristano ferito e morente, appoggiato all'albero della nave, viene approcciato da un'Isotta addolorata; per terra l'ampolla rovesciata con il filtro d'amore; sullo sfondo un mare agitato e la luna che sorge. La cosa che si nota di più, in tutto questo, è la lunga coscia scoperta di Isotta, che, più che moribonda, sembra agghindata per la danza dei sette veli.
Non capisco bene quale momento dell'opera si voglia rappresentare, perché questi elementi (Tristano ferito, l'ampolla rovesciata, Isotta addolorata, il mare agitato) sono tutti presenti nell'opera di Wagner, ma mai tutti assieme, allo stesso tempo. Tuttavia, un'illustrazione di questo genere non è tenuta a rispettare il dettaglio narrativo. Quello che conta è che trasmetta l'emozione complessiva, il mood, il senso delle passioni che sono in gioco nell'opera che viene presentata.
E' proprio da questo punto di vista però, che questa immagine è un vero fallimento. Intanto, lo stile di Manara richiama troppo le storie leggere ed erotiche, piene di ragazzine discinte, che lo hanno reso famoso - e qui non viene fatto nulla per alleggerire questo richiamo. Insomma, prima di essere un'illustrazione di Tristan und Isolde, questa si presenta come un'illustrazione di Manara. E così, l'erotismo intensissimo ma cupo e disperato dell'opera di Wagner si trasforma in un'erotismo da strizzata d'occhio complice, di cui la lunga coscia ostentata di Isotta diventa il testimone.
Meglio sarebbe stato, forse, essere più sessualmente espliciti, e mettere in scena l'amplesso attorno a cui tutta l'opera gira - però con tutta la sua disperata impossibilità, e non con questa scenografia hollywoodiana, in cui Tristano sembra uscito dal set di Troy, e Isotta non è malata e languente come alla fine del dramma wagneriano, bensì una sanona bene in carne, che sta astutamente utilizzando le proprie arti seduttive.
Forse il Teatro San Carlo spera di attirare un pubblico giovanile, rivestendo l'opera wagneriana con queste vesti così glamour. Ma qualunque nuovo pubblico che andasse a vedere il Tristano perché attirato dall'immagine di Manara rimarrebbe assai deluso dal non trovarvi né glamour né hollywood né strizzate d'occhio da Striscia la notizia. A dispetto delle lusinghe di Manara, Isotta non è una velina, Tristano non è Brad Pitt (con tutto il rispetto per Brad Pitt), e il melodramma wagneriano non è un fumetto.
E mi dispiace davvero che venga data occasione di ricordare che la parola "fumetto" può essere usata, e viene di fatto usata, anche in termini dispregiativi. Cari signori del San Carlo, la prossima volta che volete illustrare un'opera che mi sia altrettanto cara, chiamate, per favore, un fumettista vero!

17.novembre.2004
D'accordo: non è appena uscito. Ma siccome è un libro sottile è rimasto sepolto per mesi nella pila dei libri da leggere del mio comodino. Era finito chissà come troppo in fondo, e lì è rimasto troppo a lungo. Così però è stata poi una felicissima scoperta, trovarlo e leggerlo. E' Il piccolo mondo del Golem, di Joann Sfar (Kappa Edizioni, gennaio 2004).
Sfar condivide con il suo più noto collega della Association, David B., il gusto per il fantastico e il gusto per il quotidiano. Ma se David B. ama raccontarci un quotidiano pieno di fantastico, la passione di Sfar sembra invertire i poli, ed è il fantastico a riempirsi di quotidiano. Così, in questo piccolo mondo del Golem, popolato di vampiri e streghe, uomini albero e mandragole, capita che gli uomini albero, dall'aspetto terribile, rimangano fermi per giorni interi perché non sanno decidersi su che strada prendere, a un trivio; e quando finalmente lo fanno, è per passione della fidanzata del vampiro, che viene colta a sua volta dalla passione per loro. E il povero vampiro è troppo timido e introverso per contrattaccare nei confronti dell'esuberante uomo albero. Devono essere i suoi amici umani a studiare il piano di riscossa, e trovare una mandragola di cui far innamorare l'uomo albero, in modo che lasci libera la fidanzata del vampiro. Mentre invece è quest'ultimo a innamorarsi della mandragola, e il suo amore sarebbe anche ricambiato se la mandragola non venisse rapita, e non finisse per essere venduta come modella, a Vilnius, al pittore Soutine... Un piccolo mondo di adorabile, sottile e malinconica ironia, dove i mostri (che in fin dei conti siamo pur sempre noi) mostrano solo le loro umane romantiche debolezze.

3.novembre.2004
E' un giorno infausto, questo, che sembra vedere riconfermato al potere il presidente più idiota della storia degli Stati Uniti d'America, con le sue promesse di guerre, di miseria economica e culturale, con l'inevitabile aumento del distacco tra America e Europa (fatta eccezione per la nostra locale idiozia, che con queste condizioni ha qualche probabilità in più di durare altri cinque anni - ma faremo il possibile per evitarlo!). Un giorno infausto che vede la patria della libertà e dei diritti umani confermare al potere un uomo che ha causato più morti inutili del criminale saudita suo amico e già socio di affari. E scusate lo sfogo!
Per fortuna non lo sapevo ancora ieri pomeriggio, quando mi è capitato di presentare presso la libreria Feltrinelli International di Bologna Craig Thompson, e i suoi due libri appena pubblicati in Italia da Coconino e Black Velvet. Se l'avessimo saputo avremmo finito per parlare di questo, e sarebbe stato un peccato. Ma cosa c'entrano le elezioni americane con Blankets e con Addio Chunky Rice?
Be', con Chunky Rice, niente; ma con Blankets c'entrano eccome. Blankets è la storia di un primo amore adolescenziale. Una storia autobiografica dove il protagonista (lo stesso Thompson) vive esattamente in quell'america di provincia, forsennatamente e integralisticamente religiosa che considera l'attuale presidente come il migliore della storia americana. Questo nel libro non c'è, ma Thompson ci ha detto che i suoi genitori e tutto il loro ambiente la pensano esattamente così. Oltre a essere la storia di un primo amore, Blankets è così la storia di un congedo dai genitori e di una presa di consapevolezza con il passaggio dall'adolescenza alla maturità - una presa di consapevolezza che è, inevitabilmente, anche ideologica e politica.
Ma questo, nel lungo romanzo a fumetti di Thompson è appena accennato, a tratti, qua e là, con la medesima delicatezza che caratterizza tutto il suo modo di raccontare, dove le cose che contano vengono sempre dette, ma con un riserbo quasi sacrale.
Nel complesso, insomma, Blankets è evidentemente un romanzo di formazione, opera di un autore giovane ma già padrone di una capacità narrativa affascinante (e la differenza con il precedente Chunky Rice si vede, nonostante pure l'opera prima si distingua per originalità). Pare che in America e in Francia abbia venduto un sacco di copie. Direi che ha le carte in regola per fare lo stesso anche da noi.

20.ottobre.2004
Leggo Vite comuni, di Mabel Morri, pubblicato da Schizzo, le edizioni del Centro del Fumetto "Andrea Pazienza" di Cremona.
Mi colpiscono due cose. In primo luogo che le brevi storie contenute nel volume sono tutte storie d'amore positive, quale più quale meno. Sono storie senza conflitto, in cui il sentimento è una cosa che c'è e si manifesta - e basta. E' bello che ci sia qualcuno che abbia voglia di raccontare quello che normalmente troviamo banale - non perché l'amore sia banale, ma perché normalmente troviamo banali le storie senza un qualche conflitto.
In realtà, a ben guardare, i conflitti in queste brevi storie di amore di Mabel Morri ci sono, ma sono così sottili e così interiori e così risolti nella positività complessiva di quello che viene raccontato, da apparire come la cosa meno importante.
La seconda cosa che mi colpisce è che queste brevi storie sono quasi senza dialoghi, con un monologo interiore che accompagna la scansione delle immagini. Eppure sono davvero storie a fumetti. O sono forse brevi prose poetiche a fumetti sul tema dell'amore: forse è questo che sono davvero, il che spiega come possano funzionare così bene con così pochi contrasti narrativi.
Un bell'esperimento comunque, che si legge con piacere - e con il piacere ulteriore del critico, che scopre una piccola significativa novità in questo modo molto personale di fare fumetti.

11.ottobre.2004
Mi capita sotto gli occhi l'edizione Panini-Planet Manga di "Lone Wolf and Cub", ovvero uno dei più bei fumetti del mondo. Grazie quindi alla Panini per aver permesso anche ai lettori italiani di goderne.
Ma colgo pretestuosamente l'occasione per inserire tra queste lodi una piccola vena di polemica. Tra l'edizione americana Dark Horse, che è quella che avevo letto io, e l'edizione Panini, c'è una sostanziale differenza, che è il senso di lettura. La Dark Horse ha scelto il senso di lettura occidentale, la Panini, più filologicamente, il senso di lettura giapponese, da destra verso sinistra.
Fino a qualche mese fa non avrei avuto problemi a lodare anche il senso filologico dei curatori italiani, che ci restituiscono le immagini originali. Poi, però, mi è venuto un dubbio; un dubbio che non riguarda solamente "Lone Wolf", ma tutti i fumetti giapponesi publicati secondo filologia.
Il dubbio è questo. La lettura da sinistra a destra (o, per i giapponesi, da destra a sinistra) non è una semplice convenzione che si può cambiare per decisione volontaria. Anche se si basa su una convenzione, per noi occidentali il verso sinistra-destra è appreso dalla più tenera infanzia (ben prima della scrittura) come il verso dell'"andare avanti", e viceversa per il destra-sinistra. Per questo, nel fumetto, non solo le vignette vanno da sinistra a destra, ma anche ciò che ci sta dentro, quando si vuole dare l'impressione di un'azione fluida.
Insomma, molto più a monte della lettura vera e propria, il verso sinistra-destra è per noi il verso dell'"avanti", e il destra-sinistra quello dell'"indietro". Si tratta di abitudini talmente radicate in noi, e così continuamente confermate dalla comunicazione, che per ribaltarle abbiamo bisogno di uno sforzo consapevole e determinato, e di un'attenzione molto maggiore.
Questo è ciò che le edizioni filologiche di fumetti giapponesi ci richiedono. In altre parole, esse hanno l'apparenza di essere come l'originale, ma in realtà, rispetto alle consuetudini di lettura dei loro lettori (cioè noi), sono di fatto ribaltate. Ed è abbastanza ingenuo pensare che il lettore possa ribaltare tutti i propri automatismi percettivi così come ribalta faticosamente il senso complessivo di lettura delle vignette.
Personalmente, trovo che la fatica e le frequenti confusioni che il ribaltamento della lettura comporta mi disturbino al punto da farmi perdere, talvolta, il ritmo della lettura e dell'azione raccontata. E anche se sono diventato bravo a orientarmi con il senso di lettura invertito, continuo a domandarmi perché, visto che le parole del giapponese me le traducono, non mi debbano tradurre anche il senso di lettura.
D'accordo, Ogami Itto apparirà mancino. Ma confesso di non essermene mai accorto; mentre mi accorgo continuamente degli errori che faccio leggendo i manga nella direzione originale.
Tanto più che le parole della traduzione italiana continuano ad andare nel loro verso, da sinistra verso destra, e a ricordarci in che direzione si va avanti, in Occidente.

10.ottobre.2004
Non sono a Romics, dove avrei voluto essere per partecipare alla premiazione di alcune opere, per via di un impegno familiare di quelli irrinunciabili. Avendo fatto parte della giuria che ha deciso i premi, mi sento coinvolto in prima persona in questa premiazione - anche perché le opinioni degli altri componenti (Alberto Abruzzese e Orio Caldiron) erano talmente in sintonia con le mie che le decisioni sono state prese tutte quasi senza discussione; giusto quel tanto che serve per capire che eravamo d'accordo.
Inizio questo BLOG così, sperando di avere la costanza per continuarlo, perché vorrei fornire le mie personali motivazioni per le scelte che ho fatto, e per le passioni che mi hanno spinto a farle.
Iniziamo da lontano, e cioè dal premio per la migliore opera di scuola nipponica. Qui le opere in concorso erano poche, e il Gourmet di Taniguchi ha vinto facilmente, anche se di Taniguchi avrei preferito premiare altro. Il problema di Gourmet è che probabilmente andrebbe letto secondo la scansione della sua pubblicazione originale, ovvero ogni qualche giorno quelle poche pagine di ogni specifica storiella. Leggere tutte di seguito le gustose meditazioni di un raffinato ghiottone porta allo stesso tipo di esaurimento che si prova verso la venticinquesima portata di una cena dove tutto è squisito: è fisicamente impossibile reggere e gustare tutto. Se potessimo diluire la cena in dodici cene di due portate ciascuna, probabilmente le gusteremmo molto di più.
Per la migliore opera di scuola angloamericana, il premio è andato a Black Hole di Charles Burns. Da quando, negli anni Ottanta, Burns stava in Italia, e faceva parte del gruppo Valvoline, la sua capacità di far scorrere dei brividi lungo la schiena si è fatta ancora più raffinata - e adesso non ha nemmeno più bisogno di mostrarci l'orrore per farcelo intravedere a ogni vignetta. Conturbante credo che sia la parola giusta per definire quello che fa.
Poiché non erano presenti al concorso opere di scuola latino-americana, si è deciso di riciclare il premio, e di premiare anche la migliore opera di scuola specificamente italiana. Barokko di Paolo Bacilieri è stata la scelta. Personalmente, io continuo a trovare Barokko la cosa migliore fatta da Bacilieri, che quando fa le cose un po' più "da autore" finisce per lasciarsi prendere la mano dalla sua verve un po' provocatoria. Non che ci sia nulla di male ad essere provocatori; è che nel caso specifico di Bacilieri questo finisce spesso per banalizzare tante altre belle idee, e per togliere unità e ritmo al tutto. In Barokko invece (come anche, bisogna proprio dirlo, quando disegna Napoleone) l'equilibrio tra la capacità narrativa e grafica e lo spirito provocatorio funziona davvero bene - e Bacilieri sa essere bravissimo.
Per Pillole Blu di Frederik Peeters, premiato come migliore opera di scuola europea (italiani a parte, dunque), avevo sviluppato una piccola passione già prima di ritrovarmelo davanti come membro della giuria. Qui non dico niente, perché spiego tutto in un articolo su Golem di ottobre.
Il Premio Speciale della giuria l'abbiamo dato a David B., Il grande male. Non so se sia il caso di elogiare ulteriormente anche qui quest'opera che ha segnato una pagina della storia del fumetto. Chi ama i fumetti, semplicemente, non può non averlo letto. Per me, è stata una vera esperienza di vita.
Infine, il Gran Premio, a Gipi, Effetto notte. Personalmente, si tratta dell'opera (e non semplicemente dell'opera a fumetti) che mi ha dato le emozioni più forti da diversi anni a questa parte. Ne ho scritto su Golem qualche mese fa, e quindi rimando a quello che potete leggere lì.
In effetti, su a chi dare il Gran Premio e a chi il Premio Speciale, la giuria qualche perplessità l'aveva, e io pure. Lotta tra giganti, comunque. Nell'incertezza ha prevalso la considerazione che altri riconoscimenti importanti David B. li ha già avuti, mentre Gipi ne ha più bisogno. Se avessimo dovuto premiare l'impegno complessivo dell'autore per la diffusione del fumetto di qualità, David B. sarebbe stato indubbiamente favorito; ma dovevamo premiare il libro, e, in questo, Effetto notte non è davvero inferiore al Grande Male. Forse è quasi meglio. Vogliamo discuterne?

 

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